Gianluca


Il Treno


Il treno galoppava veloce nella stazione; "Macchinista, dove andiamo?", capelli mossi dal vento e sguardo sicuro: "Oltre quelle montagne, dove c'è la città, e poi il mare".
Fissava le rotaie che si snodavano all'orizzonte con una smorfia di sfida e talvolta d'impazienza, mi dava terribilmente fastidio, soprattutto quando accelerava di proposito non appena vedeva uno scambio, quasi fino a farci deragliare; "Non andiamo troppo veloci?", vent'anni che sorridevano davanti a me, non avevo ancora visto il suo viso, mi colpì il singolare bagliore degli occhi, messo ancora più in risalto dalla pelle scura che li circondava.
Indicava le colline verdi oltre i finestrini, dove correvano dei cavalli, "Anche loro vanno verso il mare, ma passano per quelle colline, e poi per altre e altre ancora, noi invece ci saremo prima di sera, taglieremo per la pianura".

Io sbadigliavo alle forme vaghe che volavano via dietro di noi, mi veniva voglia di fischiettare ma non lo feci mai.

E il treno marciava tra le pozze d'acqua e i mille colori delle città che il sole e la sete ci avevano costruito davanti. "Macchinista, ci sono fermate prima delle montagne?", quasi seccato: "Non si preoccupi".
Continuava a guardare l'orizzonte, non c'era più sfida nei suoi occhi ma un'espressione vaga, assorta, stava in un'attesa ansiosa ogniqualvolta i binari sembravano incontrarsi e, quand'erano sul punto di farlo, lui li fissava, seguendoli anche dietro di noi; quegli occhi, quegli stessi occhi, che un momento prima erano due luci in una notte di capelli, ora giacevano spenti sopra un letto di cenere.

Avevo sete, tanta sete.

E il treno sferragliava tra i cespi d'erba secca che punteggiavano la steppa attorno a noi: "Macchinista, crede sia la direzione giusta?", "Certo", avrebbe dovuto essere rassicurante, "C'è forse qualche altro modo per raggiungere le montagne?", io tacqui. Era sempre più spesso voltato verso i miraggi colorati che scorrevano via con la sabbia dietro di noi. C'era infinita nostalgia nel suo sguardo che ogni tanto si posava su di me, fino a mettermi in imbarazzo, sentivo il dovere di dirgli qualcosa ma non sapevo cosa. Un sussulto lontano al profilarsi di uno dei sempre più rari scambi soffocava subito nello sconforto, non appena questo si faceva più nitido.

Mi lacrimavano gli occhi, forse stavo piangendo.

E il treno arrancava nella desolazione del deserto, il sole aveva portato via con sé l'arsura, e un velo di nebbia, che diventava sempre più fitta, aveva preso il posto della polvere. "Macchinista", mi fermai, mi fissava ancora e di tanto in tanto si spostava sui castelli dietro le mie spalle, e sui cavalli, che ancora correvano.



E il treno tossiva forte sui binari arrugginiti, mi sporsi da un finestrino ma la nebbia era ormai troppo fitta per riuscire a vedere qualcosa, il macchinista non si muoveva, ero sul punto di parlargli, quando mi accorsi che dormiva.

Non sapevo come mi sarei dovuto sentire in quel momento, continuai a guardare dai finestrini, mi sembrava ora di vedere i cavalli che avevamo alle spalle, città di mille colori e il mare, ma c'era solo nebbia attorno a noi, e città che fluttuavano, e cavalli, e il mare.

Si addormentò anche lui.